Fare i genitori è un mestiere indubbiamente faticoso, totalizzante, emozionante, gratificante e con indubbie ricadute sul nostro orgoglio.
Oltre alla non indifferente soddisfazione, non da tutti, di essere riusciti a mettere al mondo una nuova vita, tutti i genitori di qualsiasi tipo e genere condividono l’esperienza di avere accanto un esserino per il quale sono a lungo onnipotenti ed omniscenti.
Sì certo prima o poi arriva l’adolescenza, ci mettono in discussione da ogni angolo, ma sotto sotto è perché la nostra opinione è comunque importante per loro, la nostra approvazione necessaria, il nostro sapere incommensurabile, quasi quanto il loro bisogno di demolirlo
Questo è l’ordine naturale delle cose, noi siamo grandi e sappiamo tutto, poi siamo vecchi e non capiamo niente, poi, si spera, noi e loro saremo adulti e ci rispetteremo nelle reciproche differenze.
L’emigrazione è un’esperienza destabilizzante, oltre a stravolgere economie e geografie dei luoghi e degli affetti improvvisamente lontani, rivoluziona gli equilibri più vicini. Dopo il primo spaesamento che accomuna e avvicina una famiglia, ciascuno prende il proprio cammino di integrazione con le forze e gli strumenti di cui dispone. E questo cammino sarà differente per età, genere, formazione.
Non è facile fare la genitrice di figli che crescono, per tutte le madri è difficile trovare ogni giorno la giusta misura tra essere presenti e lasciare spazio per spiccare il volo. Finché giochiamo in casa però possiamo fondare la nostra autorevolezza su una qualche forma di superiorità intellettuale, se siamo brave, riusciamo a non farla pesare ma a metterla a disposizione. Ma è lì e serve a noi per stare in piedi, quanto a loro per potercisi appoggiare.
Ogni figlio ha bisogno che il genitore sia autorevole, anche per poterlo mettere in dubbio.
L’emigrazione stravolge anche questo. Le piccole cose quotidiane. ” Ti aiuto coi compiti?” non funziona più e loro si ritrovano più soli anche quando ci hanno accanto. Loro parlano ogni giorno meglio una lingua in cui sarò sempre smascherata dal mio accento, imparano una geografia a me ancora sconosciuta.
Non sono preoccupata per i miei ragazzi, so che ce la stanno facendo. Che hanno di certo qui molte più opportunità di quelle che avrei potuto offrire loro se non fossi partita.
So che anche io ce la farò, a tenere insieme i pezzi del mio cuore rimasti dall’altra parte delle Alpi.
Che sapremo riempire d’affetto la distanza che inevitabilmente si creerà tra noi.
Loro stanno studiando in un’altra lingua, un altro Paese, io li posso aiutare di meno che se giocassi in casa, è come anticipare il passaggio all’età adulta, ne sanno quanto o più di me.
Ma devo anche accettare che questa possa essere casa loro, anche se magari non sarà mai veramente mia.
E allora mi tocca fare ben più di un bel bagno di umiltà. Perché se questo Paese deve diventare quello dei miei figli, bisogna per forza che diventi un po’ anche il mio, almeno per amor loro. Inutile che io mi avvolga nel tricolore e canti l’inno di Mameli. Tanto so che il nostro cuore è grande e c’è spazio per un mondo intero e la mia paura che perdano le loro radici è una scemata, me l’ha detto il mio ragazzino ieri:
– Mamma, ma se prendo il passaporto svizzero, poi non posso più dire di essere italiano al 100%?
–Beh, amore, tu sarai sempre nato in Italia da genitori italiani, nessuno cambierà le tue origini e potrai sempre tenere la cittadinanza se lo vorrai.
–Ah, menomale, allora potrò essere italiano in Italia e svizzero in Svizzera!